Agricoltura a Palmi

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La lettura della relazione agronomica preliminare (vedi link), allegata agli atti del nascituro PSC, mi fa sorgere qualche dubbio sul fatto che io abbia abitato a Palmi, dagli anni cinquanta del secolo scorso, interessandomi di agricoltura; conducendo personalmente dagli anni sessanta (morte di mio padre)  una decina di ettari di vigneto (poi trasformati in uliveto negli anni settanta) e qualche ettaro di uliveto “secolare”.

Tornando alla relazione suddetta, storica e conoscitiva delle risorse attuali, apprendo, in estrema sintesi, che Palmi ha subito una “involuzione, dal momento che negli anni si è passati da produzioni di eccellenze a quelle dei nostri giorni, qualitativamente meno importanti”; che queste eccellenze erano costituite dalla produzione di grano e di ottimo vino (in alcuni casi “più che ottimo”) e che ovviamente ci si augura di tornare ai gloriosi tempi passati. L’ostacolo principale sarebbe costituito dalla cosiddetta “integrazione” che fornendo un “reddito sicuro” ha fatto sì che si piantassero ovunque olivi i quali, diventando immediatamente “secolari” e quindi “con un’elevata massa arborea, hanno influenzato il micro-clima della zona (con la complicità del monte S. Elia) rendendolo molto umido e inadatto ai vigneti”, prima massicciamente presenti nel territorio di Palmi (sino agli anni settanta del secolo scorso).

Certo, non si discute neanche che  il nostro microclima sia influenzato dalla foresta di ulivi presente in tutta la piana di Gioia Tauro sino a raggiungere e superare le falde  dell’Aspromonte. Comunque tornando alla “consecutio” precedente: solo se l’integrazione venisse abolita potremmo assistere al ritorno virtuoso alle produzioni eccellenti di una volta. I proprietari di uliveti senza la rendita “integrazione” sarebbero costretti ad abbattere gli ulivi per fare spazio ai vigneti (o ad altre eccellenti colture) e quelli che non abbatteranno dovranno almeno abbassare le chiome. Solo cosi poi potremmo invadere il mercato con il nostro ottimo “ciambretto” (!?).

Per inciso si fa presente che non è possibile per legge l’abbattimento, più o meno indiscriminato, degli alberi di alto fusto – categoria a cui certamente l’ulivo appartiene soprattutto nelle sue cultivar autoctone (ottobratica e sinopolese). Credo proprio che l’agronomo Ricciardi, si sia fidato troppo dei ricordi offuscati di qualche vecchietto trovato in campagna (i giovani non frequentano quei posti).

Avendo praticamente vissuto tutto  il periodo dell’involuzione (ovviamente moderna – dagli anni cinquanta ad oggi) credo di potere raccontare una storia  un po’“diversa”, certamente molto in sintesi.

Agli inizi del secolo passato la nostra agricoltura era caratterizzata dal latifondo. I proprietari generalmente non abitavano neanche in Calabria, ma a Napoli o a Roma e facevano gestire i fondi da persone di fiducia. Il latifondo era coltivato essenzialmente o a grano o ad uliveto. Il reddito ovviamente era minimo, ma essendo moltiplicato per l’estensione diventava non “banale”. Con la fine della vendita dell’olio per le lampade (lampante) e per fare il sapone si assistette all’estirpazione di un numero notevole di ettari di uliveto per impiantarci dei vigneti. Il nuovo business era costituito dal “vino da taglio” comprato dalle “cantine” del Nord per la “loro” produzione di vino da tavola.

È facilmente immaginabile che questa produzione non poteva dare un reddito sufficiente soprattutto al “colono” che non poteva moltiplicare (il reddito) per altri appezzamenti (come il padrone). La fame (non è un’esagerazione) e tutti gli altri bisogni sfociarono in un’emigrazione epocale (soprattutto negli  anni cinquanta e sessanta). La vigna non può essere gestita dal padrone con il solo lavoro “conto terzi” e non essendoci più coloni finì col venire abbandonata in massa. La fine del mercato del vino da taglio (intorno agli anni settanta) avrebbe comunque decretato la fine dei vigneti (praticamente tutti avocati a questo tipo di produzione). Certo, ci fossero stati ancora i coloni, trattati ovviamente meglio per via dei nuovi contratti di lavoro, ci poteva essere una trasformazione della produzione che, abbandonato il vino da taglio, si cimentasse in quello da tavola. Cosi ovviamente non fu.

In quel periodo nasceva un nuovo businnes (dei poveri): la vendita di olio all’ammasso, il cui prezzo fu  incrementato, a partire dagli anni settanta, dall’integrazione. L’olio lampante (ma praticamente anche quasi tutto il resto: vergine ed extravergine non utilizzato per l’uso locale) veniva raccolto dall’ammasso con lo scopo di convogliarlo poi alle raffinerie dove mediante la rettificazione chimica o meccanica  si produceva l’olio di oliva.

L’ulivo restava sempre un’agricoltura povera, ma comunque poteva fornire un minimo di reddito certo. Il prezzo dell’olio, negli anni ottanta – novanta, all’ammasso era di circa 300 mila lire il quintale (base 5 di acidità) a cui si aggiungevano poco meno di 100 mila lire di integrazione. A meno di 15 q. di olio annui per ettaro si poteva sperare in un incasso di circa sei milioni di lire e considerando che più della metà erano spese vive di raccolta e trasformazione ci poteva essere un utile netto finale  di circa 2 – 3 milioni (ettaro). Da tenere presente che solo da pochi anni  l’integrazione viene erogata per il solo fatto che si possiedono un certo numero di ulivi, mentre prima è sempre stata un “premio” alla produzione. Se poi si tiene conto che la coltivazione dell’ulivo è molto più semplice di quella del vigneto, che praticamente tutti i lavori possono essere compiuti con mezzi e manodopera in “conto terzi” e che la raccolta delle olive dei fondi con una certa estensione era gestita dai “gabelloti”, che compravano i frutti pendenti, si capisce come in pochi anni moltissimi dei vigneti abbandonati furono convertiti in uliveto. La situazione odierna è che il prezzo dell’olio all’ammasso, unica vendita certa, anche sommato all’integrazione odierna (meno di mille euro ettaro) dà una remissione certa rispetto ai costi di produzione.

Ben lungi dall’essere una rendita “parassitaria”, l’integrazione odierna serve ai proprietari di uliveto sia  per continuare nella loro coltivazione da sopravvivenza degli ulivi sia, ipotizzando una situazione di mercato più remunerativa (al momento utopistica), a contenere lo svantaggio di oli, simili al nostro, offerti dal mercato globale a prezzo minore (essendo altri avvantaggiati da una moneta più debole della nostra, tasse minori, costo della mano d’opera minore, ecc.).

Quali prospettive per il futuro? Il mercato non ha assolutamente bisogno di una nostra nuova produzione caratterizzata dalla mediocrità o anche dalla sufficienza. Solo per l’ottimo e l’eccellente c’è sempre posto!

Se razionalmente lasciamo perdere le favole di antiche produzioni d’eccellenza ci aspettano lunghi anni di sperimentazione che, tra l’altro, non possono garantirci nessun risultato certo. Nessuno può illudersi che con i vitigni del “barolo”, impiantati nelle nostre terre, noi produrremo del buon “barolo”… Ma neanche la cipolla di Tropea o il vino “Cirò” ( prodotti calabresi coltivati a pochi chilometri da noi) riusciamo a riprodurre con le stesse qualità organolettiche. Non avendo praticamente nessuna esperienza in merito ben venga la sperimentazione. Ma chi se ne assumerà gli oneri? La vedo difficile se si spera che a farlo saranno gli imprenditori privati (per terreni più grandi di un “fazzoletto”).

Lasciamo perdere fantasie e sogni che hanno la stessa possibilità di realizzarsi del superenalotto, sfruttiamo al massimo quello che già abbiamo. Nel campo agricolo certamente gli uliveti. Con le opportune tecniche colturali, ovviamente utilizzando la moderna  meccanizzazione agricola, consorziandoci per superare l’eccessiva parcellizzazione delle proprietà, saremo in  grado, in brevissimo tempo, di produrre dell’extravergine che non avrebbe nulla da invidiare a nessuno. Se avremo anche l’abilità di venderlo, organizzando una cooperativa per il  conferimento di qualità e la  commercializzazione, potremo presto affermare che anche a Palmi si fa Agricoltura.

Palmi 17/2/2014 – Gustavo Forca

Documenti allegati:

PSC Palmi – Relazione Agronomica– Documento preliminare (10MB)

Estratto del documento precedente (in fomato word)  contenete solo la parti “3” e “11”, non squisitamente tecniche, dove ho  segnalato in rosso e grassetto le parti, secondo me, “discutibili”.

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Nota: Per completezza e per rendere chiara l’entità della problematica ulivi do alcuni dati sulla “estensione” del problema. Nella piana di Gioia Tauro ci sono circa 2.400.000 ulivi che occupano (a 70-80 ulivi ad ettaro) circa 30.000 ettari di territorio (circa il 70%). Banale fare alcuni calcoli: se servono circa 20 giornate lavorative ad ettaro (per la raccolta delle olive), per un’attività che si svolge oggi nell’arco massimo di due mesi, ci sarà bisogno di più di (30.000×20/60) 10.000 unità lavorative ( braccianti) giornaliere, “totalmente” impegnate per due mesi. Certamente se questo succedesse ci sarebbe bisogno di molta manodopera bracciantile non reclutabile nei nostri paesi (e quindi gli extracomunitari non sarebbero un “problema” ed un’emergenza umanitaria, ma una “necessità” ed una fonte di ricchezza).
Se un ettaro, facilmente, può produrre almeno dieci quintali di extravergine, si potrebbe “muovere”, per questa “produzione”, un capitale  (annuo) almeno ipotizzabile intorno a: 4.500 x 30.000 =135.000.000 (135 milioni di euro, circa duecentosessanta miliardi delle vecchie lire). E stiamo trascurando il lampante.

Nota tratta da un mio commento in “L’olio ed il suo “giusto prezzo“; vedi anche “Uliveto

12 commenti Aggiungi il tuo

  1. pinoipp ha detto:

    Non credo che la relazione agronomica, particolarmente in fase conoscitiva preliminare, debba spingersi in valutazioni sull’opportunità di integrazioni economiche o di sussidi a sostegno di una determinata coltura. In ogni caso, auspicare tout court la fine dell’integrazione per la produzione dell’olio di oliva vuol dire condannare a morte anche questa estrema industria locale, esponendola alla concorrenza di paesi dove il costo dei fattori produttivi è una frazione di quello italiano. Con maggior senno la politica agricola comunitaria, che entrerà in vigore dal 2015, prevede una riduzione del premio ma in modo graduale, comportando al termine del settennato una contrazione complessiva del 25% degli aiuti comunitari. La speranza è che in questi sette anni non solo cresca la produttività nel sud Italia ma lieviti il costo del lavoro nei paesi concorrenti.

  2. carmelo garipoli ha detto:

    Dalla lettura della relazione tecnica redatta dal Dr. Agronomo Ricciardi , incaricato dal comune di Palmi, da quanto scrive Gustavo e da altre informazioni assunte presso persone più o meno esperte in materia di agricoltura, credo sia auspicabile per gli olivicoltori palmesi associarsi in cooperative per ridurre al minimo i costi di produzione dell’olio.
    E’ chiaro, comunque, che non si possa competere, a livello di costo di produzione, con oli provenienti da altri paesi laddove i costi di produzione sono estremamente inferiori rispetto a quelli che sostengono attualmente i nostri produttori, nonostante l’integrazione ( 1 litro di olio extra vergine marca DESANTIS o DECECCO costa oggi, in offerta, 3 euro presso qualsivoglia supermarket ).
    Non convince per niente, invece, la storia che ci racconta il Dr. Ricciardi quando afferma che “ molto apprezzato era il vino della zona di Scinà/Ciambra “; a me sembra, invece, a memoria che in tale zona si producesse il peggiore vino di Palmi; il peggiore è riferito alla qualità, praticamente, il c.d. “ vinu chi pari acqua frisca”, di grado alcolico molto modesto e, pertanto, pronto a diventare “ spuntu “ e successivamente aceto in brevissimo tempo se non trattato con “ sumpusturi “ di varia natura.

    1. Gustavo ha detto:

      Carmelo concordo su quanto dici, ma voglio fare una precisazione tecnica. Il vino spunto (acescente) tale rimane e difficilmete da solo diventa aceto. Per farlo diventare aceto si aggiunge ( in quantità ovviamente proporzionali) a contenitori che già contengono aceto e dove è presente la cosiddetta “mamma”. Dal vino spunto di bassa gradazione (8,10 gradi) non si ottiene un buon aceto. Un vino ad alta gradazione alcolica (più di 13 gradi) difficilmente diventa acescente.

  3. FB ha detto:

    E’ un argomento che riporta a tanti scenari della vecchia campagna locale ed anche a varie leggende sulla qualità dei nostri vini, resi a volte mitici. Devo dire però che parlarne “in chiaro”, se così si può dire, con l’apporto di chi può esprimersi con cognizione di causa, è senz’altro positivo e può diventare persino costruttivo. Il campo dell’agricoltura locale oggi risente in modo particolare della competizione dei produttori di paesi dell’area mediterranea, ed è quindi opportuno studiare forme associative di produzione che la facciano risorgere.

  4. Vincenzo ha detto:

    Buongiorno a tutti i cittadini Palmesi del forum,
    Gustavo quanto hai spiegato è la verità, il relatore-Firmatario-disinformato del PSC, ha bisogno di aggiornamenti sulla realtà agricola local-meridionale-.Sappia che in agricoltura cmq si lavora in piedi e si suda, intanto secondo me andrebbe segnalata la cosa al sig. sindaco, in quanto è bene avere traccia storica dell’inizio di queste avventure temerarie che fino ad oggi hanno solo prodotto danni. Ho letto l’articolo ieri sera, ho dovuto meditare durante la notte, ritrovare l’equilibrio democratico per non essere eccessivo. Mi auguro che qualcuno al Comune si accorga di questo orrore tecnico-agricolo, cmq, oltre ad essere d’accordo su quanto hai affermato sulla storia agricola palmese, offro la mia disponibilità a sottoscrivere qualsiasi documento sugli andamenti storici del settore agricolo del ns. territorio, ricordo che sui terreni della zona E 4 non vi è corrispondenza strutturale circa l’argillosità, franosità ecc. dei siti ricadenti all’interno descritti. Cmq. ho visto che il documento, che riporta i nomi di tutti i partecipanti ai lavori, non porta data della delibera o date previste per l’approvazione, o presentazione della stessa. Appena posso, cmq invierò una mail al sig. sindaco per segnalare gli errori, che se qualcuno vuole bene a questo paese, dovrà rivedere. Buona giornata io corro verso la campagna, se il tempo tiene sarà un bella e dura giornata di lavoro-

  5. Gustavo ha detto:

    “To crasì àndin Parmi ène nerùci” Il vino di Palmi è acquetta; tratto dal Lessico Grecanico-Italiano di Filippo Violi (segnalazione fattami da un amico lettore del nostro sito)

    1. FB ha detto:

      Gustavo, ma allora perchè a Palmi si dice “stai attentu ca u vinu non è acqua”?

      1. Gustavo ha detto:

        Certamente, non nominando “Parmi”, è detto in senso generale. Comunque io preducevo vino di 11, 13 gradi a secondo delle annate. Ma il grado del vino è solo una delle componenti per fare un buon vino da tavola. E’ anche una delle carattestiche più facimlente modificabili (zuccheraggio del mosto, aggiunta di mosti concentrati, eliminazione con caldo o freddo di una parte di acqua, ecc.) Un decente vino da tavola non è nenche tanto difficile da farsi e certamente lo potremmo fare anche noi, come in tutto il resto d’Italia. Ma si parlava di “eccellenze” ed lì che il discorso si fa estremamente serio e l’improvvisazione ha la stessa probabilità di successo di un 6 al superenalotto. Certo è possibile, ma affidare a questa possibilità le “sorti” della nostra agricoltura…

  6. Gustavo ha detto:

    Qualche cifra sulla produzione di olio e di vino in Italia, dalle quali poi ognuno trarrà le conseguenze che più riterrà opportune (dati del 2012)
    Produzione di vino in Italia: circa 50 milioni di ettolitri Consumo interno circa 23 milioni di ettolitri ( circa 24 milioni di ettolitri vengono esportati, mentre solo il 10% circa del consumo interno viene importato )

    Produzione di olio: circa 570 mila tonnellate ( consumo interno circa 700 mila tonnellate)
    Essendo ai primissimi posti (probabilmente al primo) come esportatori di olio di oliva sia in Europa che negli altri continenti per soddisfare il consumo interno siamo costretti ad importare molto di più di quanto non esportiamo.

  7. massimo ha detto:

    Le relazioni di Gustavo sono molto chiare ed interessanti, per me delle vere e proprie lezioni, se potessi lo nominerei assessore all’agricoltura della Piana della Costa Viola per la passione e la competenza che mostra. E’ chiaro che l’unica strada e’ la qualita’, l’eccellenza, il prodotto di nicchia a cui una buona politica potrebbe trovare un mercato, ma e’ anche la strada piu’ impegnativa. L’agricoltura e’ fondamentale e non va sottovalutata, per noi e’ anche cultura, tutela dell’ambiente, turismo, indice di qualita’ della nostra vita.

    1. gustavo ha detto:

      Massimo, ti ringrazio per gli apprezzamenti, anche se esagerati! Negli attuali tempi di globalizzazione, siamo invasi da merci scarse e mediocri a prezzi stracciati. Purtroppo siamo anche in un periodo di crisi molto seria per cui queste merci hanno un mercato molto vasto (bisogna pur sopravvivere…). Certamente la globalizzazione andrebbe regolamentata almeno nei diritti di base dei lavoratori e dei produttori, anche per avere tutti una identica piattaforma di partenza. I prodotti di qualità soffrono un po’ meno di questo handicap iniziale e quasi sempre riescono a crearsi delle nicchie di mercato fatto da estimatori.

      1. massimo ha detto:

        La globalizzazione esclude l’imposizione di dazi per difendere i propri prodotti, d’altronde l’Italia potrebbe,tericamente, imporli solo per il proprio territorio, ne’ possiamo aspettare che tutti i Paesi del mondo abbiano lo stesso livello di capacita’ economica per essere tutti sullo stesso piano. Registro che il settore enogastronomico italiano e’ l’unico che cresce e che esporta ancora di piu’, quindi, nonostante tutto ed il prezzo certamente piu’ alto rispetto ad altri Paesi, molti vogliono mangiare e bere italiano.

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