06-Neri di Calabria

Palmi 26/12/2011-Reportage di “pinoipp” sulla festa del 23 dicembre

La strada che da Taurianova porta a Rosarno è un percorso accidentato di buche nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Dapprima sono due ali di fabbricati irregolari e fatiscenti, poi sono lussureggianti agrumeti immersi tra maestosi ulivi a condurci sino al fangoso viottolo che porta alla cascina maledetta, abbandonata da anni e divenuta rifugio di circa centocinquanta africani, un decimo dei millecinquecento lavoratori neri che si stima siano presenti in questi giorni nella zona per offrire le proprie braccia alla raccolta di arance e di mandarini.

È oramai notte quando arriviamo e la scena è illuminata da una lampada alimentata da un gruppo elettrogeno che per la “festa” è stato trasportato sin lì. Lo spettacolo che ci appare è surreale. Un brulicare di uomini entrano ed escono dal cono di luce della lampada, all’interno del quale fervono i preparativi: la sistemazione di due grossi pentoloni, il taglio delle carni e delle verdure.

Fuori dal cono di luce, nella campagna attorno al casolare, a guidare  l’occhio è il bagliore di guizzanti lingue di fuoco che salgono da bidoni di lamiera attorno ai quali ci si accalca per riscaldare la fredda notte dicembrina. Nell’oscurità brilla, su quei giovani volti neri, il bianco degli occhi che scrutano con semplicità e imbarazzo noi, nuovi arrivati.

Sono per lo più originari della Costa d’Avorio, del Gambia, del Ghana, del Senegal, ma non mancano i maghrebini. Ahmed, ad esempio, è di Casablanca; è qui da qualche settimana, in Italia da qualche anno. È già stato a Saluzzo, in Piemonte, per la raccolta delle mele. Racconta che là, nonostante la presenza ingombrante della Lega Nord, la mobilitazione delle associazioni anti-razziste ha costretto le autorità locali ad organizzare campi di accoglienza piuttosto confortevoli.

Qua manca l’acqua. La prima preoccupazione di ogni bracciante africano, di ritorno dalla sua giornata di lavoro nei campi, è quella di approvvigionarsene raggiungendo con le taniche, a piedi o in bicicletta, la più vicina sorgente d’acqua pubblica. Solo così si può bere, ci si può lavare e lavarsi gli indumenti, mentre una robusta quercia offre i suoi rami come stendino.

Qua manca l’energia elettrica. Non c’è altro modo per riscaldarsi o per cucinare che non sia bruciare foglie e rami secchi. Non si può leggere, né ascoltare musica, né guardare la televisione. Mancano letti, sedie, armadi. Si dorme all’interno di edifici dai tetti pericolanti, con porte e finestre di svolazzanti tende, gli uni accanto agli altri su pavimenti rivestiti di stuoie e di cartoni, in dieci o in dodici per vano.

Le condizioni di vita degli “Africani di Calabria” sono state più volte documentate e sono note. Da molti anni, in questa stagione, arrivano qua a Rosarno (come a Rizziconi, a Gioia Tauro, a Serrata, a San Ferdinando, a Nicotera) per raccogliere l’oro giallo degli agrumi. Sono lavoratori stagionali, spesso gli stessi che provvedono alla raccolta dei pomodori in Campania o a quella delle pesche in Emilia, sicché il loro arrivo è, ogni anno, ampiamente previsto. Per questo stupisce l’inerzia delle autorità pubbliche locali e di quelle centrali.

Se anche il reddito disponibile glielo consentisse non avrebbero comunque accesso al mercato degli affitti. Agli immigrati dall’est Europa – soprattutto bulgari, romeni, polacchi, che sono un gradino sopra nella gerarchia sociale della povertà – è consentito ciò che ai lavoratori africani non è concesso, perché meno forte nei loro riguardi è la diffidenza e la discriminazione da parte della popolazione locale.

Da pochi giorni è stato aperto in contrada “Testa dell’Acqua”, dalla Regione Calabria e dal Comune di Rosarno, un centro d’accoglienza dove hanno potuto trovare ospitalità un centinaio di loro: una goccia nel mare delle richieste e delle necessità. Ad aggravare la situazione è il fatto che il campo può accogliere soltanto lavoratori in regola con il permesso di soggiorno, ma molti africani ne sono privi perché non l’hanno mai avuto o perché, se scaduto ed hanno perso anche temporaneamente il lavoro, non sono in grado di chiederne il rinnovo in quanto le draconiane norme del testo unico sull’immigrazione (DL 286/98 e successive modifiche) esigono il contratto di soggiorno stipulato con il datore di lavoro.

Ibrahim e Paco sono senegalesi. Sorridono coi denti bianchissimi anche quando chiedono solo rispetto della propria dignità di uomini. Pensano che tutti i lavoratori africani dovrebbero conoscere meglio il paese che li ospita, quale premessa indispensabile di emancipazione e di riscatto; perciò chiedono che l’Associazione tra italiani ed africani (che stiamo costruendo) si incarichi anche di organizzare corsi di apprendimento della lingua italiana e di conoscenza della legislazione, particolarmente quella sull’immigrazione. Ibrahim parla con molta attenzione, misurando bene ogni parola. Sa che questa parte d’Italia è cronicamente tra le più povere e che la crisi sta colpendo più duro qui che altrove. Diventa perfino profetico quando chiede che cessino divisioni e conflitti tra gli italiani e gli immigrati, perché l’agricoltura è insieme la  carta vincente per il nostro sviluppo e la speranza di vita e di lavoro per gli africani. È la realtà attuale che, sfortunatamente, si incarica di smentirlo. I prezzi di vendita delle clementine, ad esempio, si aggirano attorno ai 15/20 centesimi di euro per chilo; il costo della raccolta, sulla base di una paga giornaliera di 20/25 euro che è poco più del 60% di quella minima sindacale!, si aggira intorno ai 10 centesimi per chilo. Con quel che rimane in tasca al produttore non si possono spesso affrontare neppure le spese di gestione e di conduzione della proprietà; per questo molti agricoltori abbandonano il frutto sull’albero. Né bastano i sussidi europei che sono ora forfettari, 1.500 euro a ettaro a prescindere dalla produzione, a compensare per intero i costi se i prezzi di vendita, sulla spinta di un’agguerrita concorrenza internazionale, continuano a scendere. Prima, due anni fa, i sussidi erano alla produzione e garantivano un sicuro reddito (anche alle cosche che controllano i mercati ortofrutticoli), perché le arance fatturate moltiplicavano per cinque e anche per dieci volte le arance prodotte, gonfiando i rimborsi dalla UE. Con le “arance di carta” erano sorti anche magazzini e industrie di trasformazione ma anche le spremute risultarono, alla prova dei fatti, di carta.

Insieme alla UE anche l’Inps si è fatta più diffidente. L’Istituto di previdenza garantisce un sussidio ai braccianti disoccupati, purché abbiano lavorato almeno 102 giorni negli ultimi due anni e in caso di calamità anche solo 5 giorni. In pochi anni gli assegni per i braccianti disoccupati di Rosarno sono passati da 8 a 2 milioni di euro perché in un terzo dei casi le assunzioni erano fittizie e servivano a riscuotere gli assegni statali. I contributi previdenziali non venivano neppure versati, i finti braccianti facevano spesso un altro lavoro. In campagna ci vanno gli immigrati africani, i soli che accettano le miserabili paghe giornaliere.

Cosa può fare l’Associazione che vuole tutelare i diritti dei braccianti africani? Può affiancare il sindacato nel chiedere il rispetto della paga sindacale, può adoperarsi per accorciare la filiera di distribuzione e incrementare il prezzo di vendita degli agrumi. Qualche esempio ben riuscito non manca ma la strada da fare è davvero molto lunga. Qua, in questo pezzo d’Africa in Calabria, a pochi giorni dal secondo anniversario della “rivolta”, nonostante tutto – e questa è la sola buona notizia – non c’è traccia di possibile deflagrazione.

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