Una persona guarda la propria immagine riflessa in uno specchio, divertita del mancinismo a cui è costretta per l’eternità. Potrebbe essere il 27 novembre del 1935, ed il luogo, non da tutti conosciuto, un barrio presso la provincia del Salto, al confine tra Argentina ed Uruguay. La persona alza il braccio destro e la persona riflessa alza quello che la persona che si riflette pensa essere il sinistro. Alle loro spalle un specchio più grande riflette l’immagine di entrambe così le persone sembrano in tutto quattro, due destrimani e due mancine. Se ci fosse un altro specchio, il fenomeno si duplicherebbe. Quante sono le persone? Una o quante ne riflettono gli specchi? Alzano tutte il braccio oppure una sola? Lo fanno tutte nello stesso istante? Esistono più istanti? Borges si pone domande troppo vaste per la nostra limitata comprensione. Borges esplora, alla ricerca delle risposte, territori inesplorati dell’anima e dell’intelletto. Borges utilizza, come strumento ermeneutico di ricerca, un’erudizione sconfinata e spiazzante. Borges talvolta è decisamente troppo, però quando finisci un suo racconto quel troppo ti manca. Borges è verosimilmente in cerca dell’Attimo Eterno, con modi e tecniche da cabalista alchemico. La scrittura di Borges è come la pioggia di un pomeriggio di novembre, brumoso e plumbeo. Stai lì a guardarla e ti chiedi se ha un senso tutto quel diluvio inesorabile, che forse o probabilmente non c’è. Eppure resti lo stesso a fissarla, ipnotizzato dallo scroscio continuo, e non ti accorgi che il tuo alito appanna il vetro della finestra mentre, oltre il vetro appannato, la realtà perde via via consistenza.