“Patria” di Fernando Aramburu

Il termine “patria” deriva dal latino ma non, come si potrebbe pensare, da “pater”, bensì dall’aggettivo “patrium” e sottende la parola “terra”. Terra patria è la terra natale, quella degli avi, quella in cui siamo nati e prima di noi sono nate le generazioni da cui, iure sanguinis, discendiamo. La patria è la terra che ci ha tenuti in grembo, fecondata da coloro che la hanno calpestata, è il “paese che ci vuole” di Pavese, sono le pietre e le strade che raccontano la tua storia e quella della tua discendenza. La patria è la madre, la famiglia all’interno della quale nascono, si evolvono e deflagrano i conflitti, ma anche il luogo dell’anima dove si provano i sentimenti più profondi, totalizzanti, definitivi. Non è un caso dunque che le protagoniste siano due madri, Miren e Bittori, amiche-nemiche, simili e diversissime, che incarnano la dicotomia vita-morte di cui è permeato tutto il racconto. La scelta autoriale di fare ampio ricorso all’analessi ed alla prolessi, in un continuo inseguirsi di flashback, accentua la frammentarietà della narrazione e spinge il lettore ad infilarsi tra le varie cesure, come a prendere parte alle vicende che si svolgono nelle Province Basche, in un arco di tempo che va dai primi anni ‘80 ad oggi. La struttura ciclica fa sì che in un momento si parteggi per una delle due famiglie trascinate inevitabilmente verso la tragedia, oppure per uno o più dei loro componenti, il momento successivo si venga risucchiati nella Storia di una terra martoriata ed intrisa di sangue, storicamente teatro di scontri violenti – erano baschi e non mori quelli che sterminarono la retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle, appunto in terra basca- patria vagheggiata e mai inverata. Tanto altro ci sarebbe da scrivere per un libro che può definirsi un piccolo capolavoro, ad esempio il vezzo sintattico di passare inavvertitamente dalla terza alla prima persona da parte del narrante, che spiazza e stuzzica. Ma è sicuramente molto meglio leggerlo.

Paky Faraone

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