«C’erano molti di quei calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame » Così raccontava Edmondo De Amicis, sul suo libro di viaggio “Sull’Oceano” (1889), la traversata oceanica di molti emigranti italiani che speravano di trovare una vita migliore nel Nuovo Mondo. Non molto diversa doveva essere la condizione di povertà agli inizi del ventesimo secolo della famiglia contadina di Nicola Musuraca, nato a Riace nel 1892, quando, non ancora quindicenne, insieme a suo padre Cosimo, lasciò il piccolo borgo adagiato sulle dolci colline della costa ionica reggina per imbarcarsi sul piroscafo italiano “Re d’Italia” in partenza per gli Stati Uniti d’America dal porto di Napoli.
Era il 18 luglio del 1907. L’arrivo al porto di New York avvenne il 3 agosto del 1907. Insieme ai loro compagni di viaggio vennero trasferiti a Ellis Island per essere sottoposti all’ispezione federale degli immigrati. Superata l’ispezione, i Musuraca si stabilirono a Brooklyn, dove già risiedeva un fratello di Cosimo, Francesco. Dopo umili e vari lavori, nel 1913 a New York divenne autista del produttore James Stuart Blackton, fondatore della Vitagraph Company of America. Fu poi suo collaboratore come proiezionista, addetto al montaggio e dal 1923 direttore della fotografia. Lasciata New York nel 1920 e stabilitosi in California nel 1927, iniziò a lavorare dal 1928 con la RKO, una delle importanti case di produzione di quegli anni, dove vi rimase fino agli anni Cinquanta. Fu in quel periodo che rilesse la lezione dei maestri dell’Espressionismo tedesco gettando le basi e lasciando visibile il marchio di un bianco e nero fatto di luci basse e atmosfere minacciose, tipico del film noir, sin da Lo sconosciuto del terzo piano dove la fotografia materializza mirabilmente la paranoia di Peter Lorre, soprattutto nella memorabile sequenza dell’incubo. Il suo talento riuscì, inoltre, a superare i limiti imposti dalla casa di produzione ai costi necessari per realizzare le pellicole.
Nella sua filmografia resta soprattutto l’horror di Jacques Tourneur (Il bacio della pantera), dove è fondamentale l’uso della luce che contribuì a provocare un’identificazione più forte e più profonda dello spettatore con i personaggi. Indimenticabile la sequenza della piscina con i riflessi cangianti dell’acqua proiettati sul soffitto e la scena dell’inseguimento notturno. Altro apporto significativo lo diede nel film di Robert Wise (Il giardino delle streghe), un horror. Da non dimenticare alcuni capolavori come Le Catene della colpa di Jacques Tourneur, uno dei più alti esempi di noir degli anni Quaranta, dramma dell’ossessione e della predestinazione, dove Musuraca gioca con le ombre degli interni oscurando spesso le silhouette dei diversi personaggi o l’altro capolavoro La scala a chiocciola di Robert Siodmak, dove la lezione dell’espressionismo tedesco, assorbita da Musuraca, è ben evidente soprattutto nelle sequenze più oniriche e surreali come il sogno a occhi aperti di Helen, nei contrasti chiaro-scuro e nelle illusioni ottiche. Musuraca cercò di portare il marchio delle luci basse anche nel genere western con risultati notevoli nel crepuscolare Sangue sulla luna con Robert Mitchum di Robert Wise. Non tutti hanno realizzato quel sogno americano che animava molti ad emigrare verso gli Stati Uniti, terra delle grandi opportunità, ma il nostro riacese è riuscito a concretizzarlo, lasciando una notevole eredità nella storia della fotografia del cinema americano. Certo, non bisogna mitizzare più di tanto “il sogno americano” perché esso è fatto anche di meccanismi spietati, secondo i quali se non riesci ad aver successo non vali niente, come mette in luce Arthur Miller in “Morte di un commesso viaggiatore”, uno dei suoi testi teatrali più famosi.
Mimmo Gagliostro – 25 Novembre 2020